ARCHIVIONovaetveteraBeato Paolo VI, il Papa cui tutti dobbiamo qualcosa

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Paolo-VI

Paolo VI, Giovanni Battista Montini, è dal 19 ottobre 2014 beato della Chiesa Cattolica. Una circostanza che, in verità, non stupisce più di tanto da quando, nel secolo XX, è diventato abituale portare agli onori degli altari i Papi. Così è stato per le canonizzazioni di Pio X, di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, per le beatificazioni di Innocenzo XI e Pio IX e ora di Paolo VI. Prassi tuttavia adottata con molta parsimonia nei secoli precedenti, salvo casi eclatanti e in qualche modo simbolici di papi della statura di un Gregorio VII o di un Pio V.

La beatificazione di Paolo VI assume in ogni caso un significato e una portata particolari in quanto il quindicennio del pontificato montiniano è quello più segnato dalla “novità” conciliare. “Paolo VI principe riformatore” ebbe a definirlo Andrea Riccardi nel saggio Il potere del Papa, il quale assegna proprio a Montini la funzione di “pontificato di transizione”. Una nozione questa difficile da accogliere che pur tuttavia ha il pregio di rappresentare il grado di rottura incarnato da Paolo VI nel rapporto della Chiesa con il mondo prima e dopo il Vaticano II.
A Paolo VI deve essere comunque riconosciuto il merito indiscutibile, esercitato fino all’eroismo del martirio, “bianco” solo perché senza effusione di sangue, di avere custodito integro il depositum fidei consegnato da Cristo alla sua Chiesa, che “sussiste nella Chiesa cattolica”, secondo la formulazione della costituzione conciliare Lumen gentium da lui stesso traghettata all’approvazione con la sapiente regia delle sue notae exsplicativae praeviae.

Pur essendo impossibile operare una ricostruzione in questa sede delle tensioni del pontificato di Paolo VI tra tradizione e innovazione, per evidenziare la portata del rischio della deriva post-conciliare, basti richiamare il testamento di Montini datato 30 giugno 1965, ovvero sei mesi prima della chiusura del Concilio, avvenuta il successivo 8 dicembre.

Al cuore del testo, dopo accenti di vera effusione lirica, così tipici di Montini, il papa scrive: “E circa ciò che più conta, congedandomi dalla scena di questo mondo e andando incontro al giudizio e alla misericordia di Dio: dovrei dire tante cose, tante. Sullo stato della Chiesa; abbia essa ascolto a qualche nostra parola, che per lei pronunciammo con gravità e con amore. Sul Concilio: si veda di condurlo a buon termine, e si provveda ad eseguirne fedelmente le prescrizioni. Sull’ecumenismo: si prosegua l’opera di avvicinamento con i Fratelli separati, con molta comprensione, con molta pazienza, con grande amore; ma senza deflettere dalla vera dottrina cattolica. Sul mondo: non si creda di giovargli assumendone i pensieri, i costumi, i gusti, ma studiandolo, amandolo, servendolo”.

Si noti innanzitutto il passaggio dalla prima persona singolare alla prima plurale in correlazione con il trascorrere dalla dimensione personale a quella ecclesiale di pontefice universale. Quindi l’accento posto sulle espressioni magisteriali, esemplificate sotto la dizione di “qualche parola” pronunciata “con gravità e amore”, il dialogo tra cristiani e, in prospettiva, interreligioso “senza deflettere dalla vera dottrina cattolica”, e, soprattutto, il rapporto con il mondo contemporaneo, fatto di studio, amore, servizio, senza cedere alla tentazione di assumerne “pensieri, costumi e gusti” con la persuasione di “giovargli”.
Parole di straordinaria attualità con cui oggi il successore Francesco è chiamato a misurarsi già nell’assise sinodale, lui che di Paolo VI si professa ammiratore e ne ha celebrato la beatificazione.

Coerentemente con questa dichiarazione testamentaria, di valore riassuntivo pur in un contesto ancora “proemiale”, Montini ha sviluppato tutto i suo magistero la cui espressione apicale resta l’Humanae vitae sulla regolamentazione delle nascite. Questo atto, promulgato nel pieno della contestazione sessantottina, destò così tante critiche dentro e fuori la Chiesa da indurre lo stesso papa a non usare più per l’avvenire il genere della “lettera enciclica” per non esporlo a svilimento.
Eppure, proprio l’Humanae vitae, è il documento magisteriale più significativo di tutto il Novecento in virtù di quella precisazione introduttiva per cui la trasmissione del potere divino da Cristo a Pietro e agli Apostoli comporta anche il giudizio affidato alla Chiesa sulla legge naturale che è espressione dei comandamenti di Dio. Anche in questo caso, è Paolo VI, in nome dell’autorità apostolica conferitagli, ad assumersi l’onere di dire no alle voci numericamente maggioritarie nella commissione di esperti nominata allo scopo da Giovanni XXIII, e forse anche nell’episcopato mondiale, inclini alla riforma della dottrina in materia di contraccezione e aborto.

Altro discorso potrebbe farsi sulla riforma liturgica, varata da Paolo VI nel 1970 a quattrocento anni da quella voluta da Pio V in esecuzione dei decreti tridentini. Oggi che la memorialistica dei protagonisti, Louis Bouyer in primis, eminente liturgista della commissione approntata allo scopo, consegna una ricostruzione meno monolitica dei fatti con il segretario Bugnini artefice e regista dei veri strappi con la tradizione al di là e contro gli stessi auspici del papa, si comprende meno anche l’intransigenza mostrata da Paolo VI verso il mondo tradizionalista e Lefebvre. Nella lettera che nel 1976 indirizzò a mons. Lefebvre, testo redatto in un elegante latino curiale, il papa difendeva il novus ordo missae prodotto dalla commissione Bugnini sotto il segno dell’accettazione incondizionata del Concilio Vaticano II. Mai si esprime nel senso dell’abrogazione del vetus ordo, questione su cui Benedetto XVI ha posto il sigillo definitivo con la liberalizzazione di Summorum pontificum nel 2007. Tanto più affette da “progressismo adolescenziale”, secondo la felice espressione di papa Francesco, appaiono allora le recenti dichiarazioni di Alberto Melloni, esponente dell’ermeneutica della discontinuità della scuola di Bologna, per cui la beatificazione di Montini comporta anche la beatificazione della riforma liturgica “in quanto compiuta da un cristiano”. Affermazione invero sorprendente, ma in linea con la definizione dello storico di papa Giovanni come di “un cristiano” artefice di un “suo concilio”.

Alla fine, per un pontificato così complesso, bisogna lasciare la parola al bilancio fattone dallo stesso protagonista. Il 29 giugno 1978, poco più di un mese prima della morte, Paolo VI dice: “Davanti ai pericoli che abbiamo delineato, come di fronte a dolorose defezioni di carattere sociale o ecclesiale, Noi come Pietro ci sentiamo spinti ad andare da Lui, come ad unica salvezza, e a gridargli: «Domine ad quem ibimus? Verba vitae aeternae habes». Solo Lui è la verità, solo Lui è la nostra forza, solo Lui la nostra salvezza. Da Lui confortati proseguiremo il nostro cammino”.
Questo cammino ha condotto Paolo VI ad essere annoverato oggi tra i beati della Chiesa.
Nicola Russomando

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