ARCHIVIOArrestato e rilasciato tre volte: l’odissea del «re della bufala»

admin11/06/2014
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Mandara Giuseppe arresto

Qui tocca modificare anche le istituzioni del diritto penale, lo impone la creatività giudiziaria. Non più solo il ne bis in idem (cioè, nessuno può essere giudicato due volte per lo stesso fatto) ma è tempo di ne tris in idem, come la storia di un imprenditore campano suggerisce. Parliamo di Giuseppe Mandara (nella foto al momento dell’arresto) cosiddetto “re della mozzarella”, uno dei principali del settore in tutto il Paese.

 

Lo hanno arrestato una prima volta agli inizi dei ’90: e lo hanno prosciolto perché i magistrati del tempo avevano preso una cantonata. Poi una seconda nell’estate del 2012: e qui pure hanno dovuto scarcerarlo per analoghe ragioni. Infine, l’ultima (per ora) incarcerazione pochi mesi fa: alla quale, naturalmente, è seguita rituale scarcerazione. Inutile ripetere il perché. Basti pensare che da 20 anni la magistratura cerca di dimostrare che Mandara è contiguo ai clan camorristici (segnatamente al La Torre, sodalizio tra l’altro evaporato da almeno una decina d’anni) e che avendo ricevuto nel 1983 (sic!) un prestito di 700milioni di lire dalle mani dell’ex capo Augusto (oggi, ovviamente, «pentito») per avviare l’impresa, ha intrinsecamente acquisito lo status di azienda infiltrata se non di diretta derivazione mafiosa. Tesi potente, che va dimostrata con certezza assoluta perché la collettività ha tutto l’interesse a preservarsi da tanta criminale penetrazione: il punto è che bisogna saperlo fare e, soprattutto, che debba essere vero e certo in quanto dimostrato secondo le dinamiche previste dalla legge. Sembra, invece, che si sia giocata una partita diversa e forse la collettività non saprà mai, a questo punto, dove sia la verità. Sempre che ne esista una.

Per ora c’è che l’impresa Mandara per il sol fatto di aver subito l’arresto del titolare nel 2012, con relativa gogna mediatica del 95% dei media (il giorno dell’arresto e non all’esito delle scarcerazioni come si conviene ad una consolidata, recente, tradizione) ha calcolato il danno in quasi 3 milioni di euro. Danni impressionanti, che subiscono migliaia di imprese italiane al di là delle fisiologiche quote d’errore, sempre celate nell’angolo dell’imprevedibile e dell’imprevisto. Non solo, ma dagli uffici della Mandara hanno già calcolato il danno economico dell’ultimo arresto del titolare, quello dello scorso mese: siamo già attorno al milione di euro di mancati introiti. Per non dire del numero degli addetti in azienda, diminuito di 18 unità nell’ultimo biennio. Una relazione tra questi dati e le iniziative giudiziarie ci sarà o no?

Scrive la I sezione penale della Cassazione il 14 febbraio 2013, giudicando sulla ammissibilità o meno del ricorso presentato dalla procura generale di Napoli contro la bocciatura operata dal tribunale del Riesame che aveva scarcerato Giuseppe Mandara dopo il secondo arresto chiesto ed ottenuto dai pm, che «(…) le conclusioni opposte dal Gip erano frutto di una valutazione acritica del materiale narrativo raccolto, con l’esaltazione di una formale e pressappochistica convergenza, senza approfondimento della personalità dei narratori e la evidente divergenza di alcuni degli episodi cardine con i fatti accertati e le informazioni raccolte presso testi indifferenti». Sembra chiaro, chiarissimo. I giudici della Cassazione in buona sostanza picchiano duro e dicono che i loro colleghi napoletani hanno preso per oro colato tutto quello che usciva dalla bocca del «pentito» Augusto La Torre. A tacer del resto della sentenza (prot. 21363/13) che fa a pezzi l’impianto accusatorio dei procuratori napoletani con parole non certo delicate. E qui irriferibili, in un certo senso. Conclude, poi, il presidente di sezione Severo Chieffi con atto formale depositato il 20 maggio 2013, parlando dell’attendibilità del pentito che accusava Mandara: « (…) in nessun modo è stata dimostrata l’assoluta attendibilità di La Torre (…)» pronunciandosi così per la inammissibilità totale del ricorso dei magistrati che Mandara, invece, lo volevano in galera per camorra.

Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Libero” dell’11 giugno 2014)

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