IN CITTA'Donn’Annibale e il carnevale ebolitano

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“Venite, venite, viecch’ giuv’n e femmene toste si chiama Ronn’Annibale u’ carnaluar nuost’”, questo era il grido che si udiva in strada per richiamare il popolo nelle domeniche che precedevano l’ultimo giorno di carnevale, quando si radunava nelle piazze per assistere alla rappresentazione della farsa di Donn’Annibale. Siamo ad Eboli dove da secoli si tramanda, non senza alti e bassi, l’antica rappresentazione di “Carnaluar”, i cui festeggiamenti sono espressione di in una ritualità atavica legata a periodo della Quaresima e, dunque, della Pasqua cristiana. Era proprio in occasione del carnevale che il popolo ebolitano, come del resto quello campano, metteva in scena in modo spontaneo questa rappresentazione che, recitata in strada da attori (perlopiù contadini), veniva accompagnata da chitarre, clarinetti, trombe, fisarmoniche e scetavajasse.


Non si conosce l’anno in cui l
a farsa fu concepita, né il nome di chi la scrisse e la musicò, ma la struttura semplice del testo, il tema del “matrimonio ridicoloso” e l’analogia con altre cantate carnevalesche campane, fanno pensare che la farsa di donn’Annibale sia uno dei tanti esempi del teatro popolare riconducibili ai primi anni del 1700. Non aveva un testo scritto e veniva tramandata oralmente assecondando un canovaccio che nel tempo si è andato modificando.
Le strofe in dialetto locale venivano accompagnate da una melodia tipica delle cantate settecentesche del Sud e alla pari della “Cantata di Zeza”, che costituì l’opera buffa napoletana, la farsa ebolitana fu elemento caratterizzante di questa comunità.

Sono sei i personaggi protagonisti: quattro maschili e due femminili, anche se questi ultimi era consuetudine che fossero interpretati da uomini, così come nel teatro greco-romano in cui le donne non erano ammesse. Come scrisse Domenico Scafoglio ne “Il carnevale napoletano”: “il travestimento e l’ambiguità indicano non solo la posizione repressa della donna ma il rifiuto, da parte degli uomini, di una responsabilizzazione legata al loro sesso; da qui il rifugiarsi nel ruolo femminile, considerato meno responsabile”.

Ecco i personaggi:
Giulietta, figlia di zì Aniello e innamorata di Donn’Annibale. Centrale nella farsa è il tema del matrimonio pertanto il personaggio indossa i panni di una sposa, eccentrica e buffa.
Donn’Annibale, amoroso di Giulietta, è il protagonista, il cui costume è frutto di contaminazioni ma possiede elementi caratterizzanti come il frac, il tipico colletto plissettato reminescenza della dominazione spagnola e un gilet. Tra le mani un lungo bastone ricoperto di sonagli e di fiocchi, al polso un “cornetto contro il malocchio” e alla cintura cinque chiavi, per le altrettante porte che un tempo cingevano la città vecchia.
Il Dottore, medico di tutte le malattie. E’ l’uomo saggio, un riferimento per la comunità. E’ una figura ricorrente in tutte le farse campane.
Zì Aniello, padre di Giulietta, è un contadinotto restio all’amore tra Giulietta e Donn’Annibale.
Carolina, serva del dottore, nella seconda parte della farsa si fa prendere dalla “smania” per Pulcinella. Anche lei come Giulietta è di umili origini, una popolana.
Pulcinella, amoroso di Carolina, sebbene non ricopra un ruolo centrale nella farsa, ne è l’animatore. Agitando la sua scopa, cosparsa di nastri e campanelli, attirava l’attenzione del popolo accorso per assistere allo spettacolo.

Si recitava ogni anno, anche se durante la prima guerra mondiale si assistette ad un periodo di stasi. La farsa fu poi ripresa dai “calzolai di S.Lorenzo, piazza Pendino, via Romano, Corso Garibaldi e via La Francesca, appassionati del carnevalecome testimoniano Aniello Ferraioli e Guglielmo Toscano, in un documento consultabile presso la biblioteca comunale “Augelluzzi”.
Ripresa nel 1929 e quasi abbandonata immediatamente- riporta Cosimo Longobardi nel testo “Eboli: tra Cronaca e Storia”- la farsa veniva recitata in tutte le piazze di Eboli e anche in qualche casa, specie in quelle dei sei attori: Vito Dianese (il dottore); Donato Papace (Donn’Annibale), Alberto Parisi (Giulietta); Michle Tedesco (zi’ Aniello); Antonio Longobardi (Carolina) e Felice Iacovino (Pulcinella). Ovunque era accolta da applausi e consensi, tanto che al ballo finale prendeva parte anche il pubblico”.Solo negli anni ’70 fu lo stesso Vito Dianese a metterla per iscritto dopo il suo trasferimento in Trentino Alto Adige. Divenuto pubblico il testo, si riprese a recitare la farsa non solo ad Eboli ma nel resto della piana del Sele. E’ in questo periodo che si colloca una successiva trascrizione del poeta ebolitano Tullio Cataldo.

Fu poi l’Arci Uisp a rispolverare l’usanza popolare e a riproporla nelle strade cittadine di una Eboli nel pieno della contestazione giovanile. Furono coinvolte anche le donne. Tra i protagonisti ricordiamo Daniele Petrone, Antonio Gasparro, Giovanni Tarantino, Marietta Fulgione e molti altri. Dopo questo tentativo, la farsa cade nel dimenticatoio anche se nel corso degli anni ’80 qualcuno continuava, seppur tra quattro mura, a tramandare le strofe di quell’antica cantata. E’ il caso di Anna Scaramella che con un gruppo di affezionati alle tradizioni ebolitane, non ha mai smesso di recitare il Donn’Annibale e di cucire i costumi per quanti avessero animo di inscenarlo.

Negli anni ’90 la farsa ritorna nei luoghi originari, sarà l’oratorio di San Nicola di Schola Graeca guidato da Anna Cappabianca, a farla rivivere tra i vicoli e le piazze del centro storico. Nel frattempo al Paterno, nel quartiere cittadino tra i più popolosi, i giovani mantengono viva la tradizione tramandata dagli anziani e la farsa torna ad animare il periodo carnevalesco. Si ricorda il nucleo originario: Gennaro Capuano (Donn’Annibale), Aniello Mirra (Giulietta), Luigi Notarfrancesco (Dottore), Giovanni Spagnuolo (Zi’ Aniello), Gaetano Di Lorenzo (Carolina) e Vincenzo Mauriello (Pulcinella). Ad accompagnare il testo recitato con strumenti tradizionali sono: Antonio Fresolone e Massimo Parisi (I e II fisarmonica), Antonio Mirra (fiati), Damiano Mirra (rullante), Cosimo Parisi (tamburello), Rocco Aliberti (piatti), Alfonso Botta (triccaballacche), cori Maria Augusto e Anna Palladino.

Nel 2003 su iniziativa del Comune si decise di caratterizzare il carnevale cittadino con la rievocazione della farsa popolare, fu in quell’anno che il maestro Vito Mercurio ne rielaborò il testo e lo musicò. La nuova partitura fu distribuita in città e un concorso a premi fu pensato per associazioni e scuole.

La farsa tornava a far breccia negli ebolitani ripresa dal gruppo del comitato Paterno con Massimo Parisi, Cosimo Rinaldi, Gaetano Di Lorenzo, Angela Marisei, Rocco Aliberti e Giovanni Spagnuolo ed è sulla scia di questa esperienza che nacque l’associazione La città di donn’Annibale” che oltre al preservare l’autenticità della farsa punterà alla nascita di un circuito legato all’artigianato locale lavorando sulla maschera ebolitana. Approfitto per ricordare gli amici di viaggio Mariavita Della Monica, Antonio Lamberti, Rosaria Moccaldi e molti altri che con me decisero di rispolverare usi e costumi ebolitani, coinvolgendo artisti ed artigiani, disegnatori e costumisti, impegnati ad interpretare il donn’Annibale durante le edizioni del carnevale.

Oggi la farsa sopravvive grazie a quanti spontaneamente ne interpretano i personaggi e il Donn’Annibale continua ad essere il perno del carnevale cittadino.

 

Emanuela Carrafiello

Giornalista

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