GIUSTIZIAOmissisContrada, guai ai vinti

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Questo è un articolo che dovrebbe concludersi più o meno tra cinque righe accodando un “sì” o un “no” a una semplice domanda: si può condannare una persona per un fatto che all’epoca in cui è stato commesso non era previsto dalla legge come reato? No. Punto. Invece l’articolo è costretto a dilungarsi perché, nonostante qui si abbia la Costituzione-più-bella-del-mondo, con allegata claque laudatoria e permalosa, l’irretroattività della legge penale si sfalda dinanzi al bene superiore della Giustizia in maiuscolo, meglio se “democratica”, meglio ancora se in costante militanza guerriera contro un totem rovesciato come la mafia.

Prendi il famoso caso Bruno Contrada, ex numero tre dei servizi segreti civili italiani (già Sisde), un super poliziotto cosiddetto che, più o meno 28 anni fa, incrociò sulla strada una specie di accademia del pensiero requirente distintasi negli anni a venire per understatement (no interviste, no libri, no palchi, no preti in maglioncino e jeans, no vacanze con giornalisti e, soprattutto, no militanza politico-elettorale) e creatività: suo, infatti, è l’impianto culturale del processo palermitano sulla “trattativa Stato-mafia”, verace termometro dello stato di salute psico-fisica del sistema giustizia italiano. E non solo.

Il 6 aprile 2020 Bruno Contrada si è visto ufficialmente riconoscere 667mila euro dalla Corte d’appello di Palermo a titolo di riparazione per ingiusta detenzione patita nel procedimento penale in cui era accusato di “concorso esterno in associazione mafiosa”, fattispecie inesistente nel nostro ordinamento al tempo in cui i fatti contestati si sarebbero (si sono? cambia poco) svolti.  Il riconoscimento trae origine da una sentenza della Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo), recepita poi dalla Corte di Cassazione nel 2017, secondo la quale Bruno Contrada non doveva essere condannato per concorso in associazione mafiosa in quanto il reato non «era sufficientemente chiaro e il ricorrente non poteva conoscere nello specifico la pena in cui incorreva per la responsabilità penale che discendeva dagli atti compiuti». Bisognava spostarsi fino a Strasburgo, perché l’ermeneutica è affare complicato.

Contrada, in pratica, tra il 1975 e il 1988 avrebbe brigato per favorire esponenti di maggior e minor peso della mafia siciliana in cambio di chissà cosa. Pure se quell’ipotesi criminale non era chiara, limpida, lineare e manco prevista in quanto tale dalla legge? Sì. E com’è possibile? In Italia vi sono ambiti dove molto è possibile.

Prima di provare a descrivere, seppur sinteticamente, il percorso logico seguito nell’ordinanza emessa dai giudici della II Sezione penale della Corte d’Appello di Palermo (Fabio Marino, presidente, Filippo Messana e Pietro Pellegrino, consiglieri, Contrada era invece rappresentato dall’avvocato Stefano Giordano) nella decisione di risarcire l’ex agente segreto, facciamo un breve excursus nella vicenda di una persona che oggi ha quasi 89 anni e che quando iniziò tutto ne aveva 61 (i carceri italiani pullulano di vicende più o meno analoghe o peggiori): arresto il 24 dicembre del 1992, condanna nel ’96 in primo grado, assoluzione nel 2001 in Appello, annullamento dell’assoluzione in Cassazione e poi nuovo processo d’Appello e nuova Cassazione. Condanna definitiva a dieci anni nel 2007. E poi il carcere, 31 mesi e sette giorni durante il processo di primo grado (dalla vigilia di Natale del 1992 al 31 luglio del 1995), il resto in galera dal 2007 al 2012, l’ultima parte ai domiciliari. Ricapitolando: 3 anni, 9 mesi e 20 giorni in gattabuia, 4 anni, due mesi e 10 giorni ai domiciliari. Da aggiungere che la stessa Cedu nel 2014 aveva condannato l’Italia per non aver concesso i domiciliari a Contrada fino al 2008, nonostante fosse malato e la sua condizione fosse platealmente incompatibile con la detenzione: insomma siamo in presenza di qualcosa che travalica l’errore giudiziario e che nessun accertamento dei fatti può alleviare, semplicemente perché quei fatti non sono fatti siccome lo diventerebbero solo comparendo codificati dalla legge. Non è chiaro ancora oggi, se non per quel milieu giornalistico e giudiziario di chiara inclinazione politico-editoriale che domina da sempre la scena (condizionandone le procedure) figuriamoci quanto potesse esserlo dieci, venti, trenta o quaranta anni fa. Ma tant’è.

La Corte d’appello di Palermo ha proceduto, per quel che qui se ne possa cogliere, assumendo e riordinando lo schema delle parti in causa ricavandone infine una decisione rapida, forse facilitata dall’evidenza di alcuni principi, applicabili a Contrada e a chiunque altro si trovi nella medesima condizione. Certo, trovando anche un punto di mediazione avendo l’avvocato Giordano chiesto per conto di Contrada circa 3 milioni di euro e  il pubblico ministero (in questo caso il procuratore generale di Palermo) il rigetto dell’istanza.

In particolare, richiamando la sentenza della Cedu n.3 del 14 aprile 2015, divenuta definitiva il 14 settembre successivo, che dichiarava la illegittimità della pronuncia della Corte d’appello  con cui si condannò nel 2008 l’ex agente segreto a dieci anni di reclusione più l’interdizione perpetua dai pubblici uffici ed altro, i giudici hanno sottolineato il punto di fondo individuato dai colleghi sovranazionali secondo cui «è soltanto nella sentenza Demitry (ottobre 1994) a Sezioni Unite che, per la prima volta, la Corte di cassazione ha riconosciuto definitivamente la configurabilità giuridica del concorso esterno in associazione di tipo mafioso all’interno dell’ordinamento giuridico nazionale»: in parole povere, ciò che avrebbe dovuto ridurre questo lungo articolo a poche centinaia di battute.

A nulla valsero i tentativi di far presente ai giudici nazionali nei tre gradi di giudizio che nel caso dell’ex superpoliziotto si violava il principio cardine dell’ordinamento sulla irretroattività  e prevedibilità della legge penale, tant’è che la Cedu scriveva « non è stata oggetto (la doglianza del ricorrente, ndr) di un esame approfondito da parte dei giudici nazionali, essendosi questi ultimi limitati ad analizzare in dettaglio l’esistenza stessa del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell’ordinamento giuridico interno senza tuttavia stabilire se un tale reato potesse essere conosciuto dal ricorrente all’epoca dei fatti a lui ascritti». La Corte sovranazionale giunge ad affermare che la logica seguita in Italia costituì «violazione dell’art.7 della Convenzione (sui diritti dell’uomo, ndr) che testualmente al punto 1 recita che “nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che, nel momento in cui è stata commessa non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale”». E’ bastato tutto ciò in Italia per passare un colpo di spugna sull’intera vicenda riportando la logica ordinaria sul piano dell’evidenza che 1+1 è sempre uguale a 2? No, anzi, il “dibattito” è proseguito oltre fra bocciature dell’istanza, formulata dalla difesa di Contrada, di revoca della sentenza di condanna (ex art.673 cpp), e impossibilità di considerare la pronuncia della Cedu quale «sentenza pilota non potendo considerarla espressione di una consolidata giurisprudenza europea» come poi stabilito dalle Sezioni Unite della Cassazione il 24 ottobre dello scorso anno. Poi, come detto, il punto finale della mediazione adottata dagli ultimi giudici nazionali attraverso l’ordinanza con cui il Ministero dell’Economia e delle Finanze dovrà sborsare i circa 670mila euro per ristorare l’ex agente segreto. Il quale ha di recente dichiarato a un’agenzia di essere «con un piede nella fossa, cosa vuole che mi interessi del danaro?».

Va detto che, considerati gli attori dell’eschilea tragedia in atto, soprattutto il coro dello stasimo, alla fine della quale nessun deus ex machina potrà d’incanto apparire e risolvere, ci sarà da attendersi un nuovo giudizio di impugnazione dell’ordinanza di Palermo. Del resto è stato anche auspicato da uno degli arconti della richiamata accademia in una recente intervista dove si sosteneva, con inaspettato afflato tanto garantista quanto ragionieristico, che «non sarà facile per i milioni di italiani che in questo momento drammatico del Coronavirus stentano ad andare avanti fra epidemie e licenziamenti in un Paese in piena recessione comprendere, così come per i tanti presunti innocenti in carcere assediati dall’emergenza sanitaria, come a un colpevole definitivo per fatti gravissimi si possa riconoscere un maxirisarcimento di quasi 700.000 euro a carico delle casse dello Stato che non riesce neppure a soddisfare le esigenze minime necessarie agli ospedali per fronteggiare l’emergenza». In linea teorica, il discorso non fa una piega e, assunte le premesse logiche, vien da pensare per analogia contabile al peso patito dalle casse erariali in virtù del Pil generato in venti anni di processi e controprocessi.

* Dal “Quotidiano del Sud” del 15 aprile 2020
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Peppe Rinaldi

Giornalista

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