NovaetveteraDiocesi Salerno, un po’ Matteo e un po’ Zaccheo: ecco il vescovo Bellandi

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L’ordinazione episcopale di Andrea Bellandi a nuovo arcivescovo di Salerno ha avuto per ordinante principale il cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze (a sx nella foto). Scelta più che naturale per chi come Bellandi proviene dalla diocesi del giglio e ha dovuto fare sacrificio della consacrazione in S. Maria del Fiore per la cattedrale di Salerno in nome delle opportunità suggerite dal nunzio apostolico in Italia all’atto della comunicazione della nomina. Celebrazione salernitana che di per sé ha comportato il contestuale possesso canonico della diocesi.

Tuttavia, al di là della tradizionale e suggestiva ritualità che scandisce l’ordinazione di un vescovo, quella di Bellandi si è segnalata proprio per i contenuti dell’omelia di Betori, i cui toni risentono della sua ben nota esposizione quale segretario della Conferenza episcopale italiana sotto la presidenza Ruini. Con Camillo Ruini la chiesa italiana si è molto spesa per i cosiddetti “principi non negoziabili” che rappresentano la traduzione pratica della radicalità e originalità del Vangelo oggi più che mai sotto attacco ad opera del relativismo imperante nella società. Si trattava pur sempre della chiesa di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI che all’affermazione di tali valori connetteva un progetto anche culturale. Con la chiesa di Francesco l’annuncio del Vangelo è ritmato da parole quali accoglienza e dialogo e la Conferenza episcopale italiana, tra le più ricettive al mutamento di orizzonti anche in virtù della sua naturale soggezione al Papa che ne sceglie il presidente, ha subito rimodulato su tali temi la sua azione. Anche con le dovute ricadute politiche specie nel contesto rappresentativo attuale.
Betori, con grande equilibrio e dall’alto della sua comprovata esperienza ai vertici della rappresentanza dell’episcopato italiano, ha ricordato all’ordinando vescovo gli ostacoli che si oppongono all’annuncio del Vangelo. In tal senso ha voluto evidenziare sì gli ostacoli interni costituiti da rinnovate forme di antiche eresie, come pelagianesimo e gnosticismo ritornati in auge nelle denunce di Francesco, ma anche quelli esterni indotti dalla secolarizzazione e dal relativismo imperanti. Se il pelagianesimo è per Francesco la fiducia eccessiva degli apparati ecclesiastici nella loro capacità di pianificazione – e i piani pastorali da cui è scandita talvolta ossessivamente la vita di una diocesi ne sono chiara testimonianza-, così come lo gnosticismo è “disincarnazione” di una fede che ha al suo centro all’opposto l’Incarnazione, non meno esiziali si rivelano su questo terreno le insidie del relativismo. Benedetto XVI aveva dato inizio al suo pontificato con la denuncia della “dittatura del relativismo” che travolge la stessa ragione oggettiva costituita dalla natura, Francesco ha esordito con il claim “pastori con l’odore delle pecore”, il cui ovile però sembra da ricercarsi più al di fuori che all’interno della Chiesa.

Betori nel ricordare al nuovo vescovo entrambi gli ostacoli alla sua missione non ha stabilito un ordine di precedenza, piuttosto ha richiamato la necessità di garantire la corretta tradizione della fede che a Bellandi giunge dalla successione apostolica. Anzi, a chiarire in modo più esplicito, ha indicato nell’oggetto degli studi del neovescovo, il pensiero teologico di Ratzinger, il criterio di condotta per la sua missione. Una missione orientata in senso cristologico senza cedimenti alla mondanizzazione. Anche in Francesco ricorre spesso la denuncia di forme di “mondanità spirituale” il cui significato sembra di doversi cogliere nel rigetto di particolari forme esteriori di presenza ecclesiale nella società. La mondanità denunciata da Ratzinger è piuttosto l’appiattimento sullo spirito del mondo per cui anche la propensione a non entrare in conflitto dialettico con esso è cedimento rispetto all’originalità e radicalità del Vangelo. L’antico segretario della CEI ha tenuto ben presenti i due orientamenti del magistero pontificio, ma per il fatto stesso di averli posti in giustapposizione si è sottratto alla tentazione del politicamente corretto così presente negli attuali vertici dell’episcopato italiano. Peraltro, tra i numerosi vescovi presenti al rito dell’ordinazione episcopale, vi è stato anche il cardinale Gualtiero Bassetti, attuale presidente della CEI, questi in veste di antico rettore del seminario del giovane chierico Bellandi. La “fantasia dello Spirito”, come ricordato dal nuovo presule salernitano nel suo breve indirizzo di ringraziamento, ha condotto l’uno ad essere elevato a cardinale, l’altro a metropolita in terra campana. E si sa che lo Spirito soffia dove vuole manifestando così tutta la sua sapienza anche nelle scelte più inopinate.

Intanto con il motto “Visus est et vidit”, gioco di parole di s. Agostino per cui il pubblicano Zaccheo solo quando fu visto da Cristo acquistò capacità di vedere, Bellandi si affianca alla legenda dello stemma di Bergoglio “Miserando atque eligendo” con cui Beda il Venerabile commenta l’agire di Gesù verso Matteo. Zaccheo e Matteo hanno in comune il fatto di essere stati pubblicani e di avere beneficiato entrambi della misericordia in forza dell’incontro personale con Cristo, decisivo per la loro vita secondo il racconto evangelico. Non sarà neppure un caso se sono richiamati ora a Salerno, che di Matteo vanta le spoglie, accomunati dal rimando che un motto episcopale fa dell’altro nell’intento però comune di manifestare il fatto che la fede non è teoria, ma frutto dell’incontro reale con la persona di Cristo.

Nicola Russomando

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