NovaetveteraBadia di Cava: paleografi e teologi a confronto sul “De septem sigillis”

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“Non basta essere un grande autore, è necessario essere anche un autore fortunato”: è stato questo il giudizio di sintesi pronunciato da un noto teologo, il benedettino P. Giulio Meattini dell’abbazia di Noci, a chiusura di un convegno sul De septem sigillis del monaco cavense Benedetto da Bari, che si è tenuto alla Badia di Cava il 31maggio e il I giugno. Due giorni di confronto tra paleografi e teologi su un’opera, datata 1227, che sopravvive in un unico esemplare custodito in quell’archivio, uno splendido codice membranaceo in scrittura beneventana. A sigillo del libro una miniatura di per sé emblematica, l’atto di consegna dell’opera a Balsamo, abate dell’epoca, ieraticamente seduto sul faldistorio, da parte dell’autore che vi compare in ginocchio e in figura bicefala. Se l’interpretazione tradizionale vede la miniatura come rappresentazione di un Benedetto da Bari da giovane e da vecchio a segno di un’intera vita trascorsa ad attendere all’opera, al convegno il contributo dei paleografi ha messo in discussione tale visione, individuando nel giovane monaco un discepolo o piuttosto il copista del codice. Sta di fatto che anche la versione che identificava nell’autore lo stesso copista del codice è destinata ad essere messa in discussione in virtù dell’estrema cura riservata alla stesura materiale dall’elegantissima scrittura contrassegnata da lettere incipitarie finemente miniate. Il libro come unicum, ma anche il libro come work in progress, o, latinamente, come opus in fieri, laddove l’assemblaggio stesso in 314 fogli, scritti in recto e verso, ne svela la complessa stratificazione.

Il merito di tale riscoperta dopo otto secoli di oblio è da attribuirsi al Centro di Studi Storici della Chiesa di Bari-Bitonto, che, sulla base dell’origine dell’autore, ne ha promosso la pubblicazione in un volume di oltre 950 pagine con testo latino e traduzione a fronte, curato da Giuseppe Micunco, per la collana dedicata a studi e materiali per la storia della chiesa barese. Tuttavia, Benedetto da Bari potrebbe rivendicare dalla sua terra solo il barensis con cui è indicato nell’assenza di ogni dato biografico, laddove l’opera si spiega tutta nella presentazione che ne dà lui stesso nel prologo, allorché ricorda “le richieste nate dall’affetto del desiderio di voi fratelli perché vi impartisca un po’ di grazia spirituale per confermarvi nella fede in Cristo nostro Signore”. Dunque, il trattato appare come esempio di quella teologia sapienziale, nata nel chiostro e per il chiostro, che rifugge dalla sistematicità della nascente teologia scolastica affidata alle grandi summe e che obbedisce alla spiritualità dell’ordinaria vita monastica.

Infatti, i sette sigilli di Benedetto, pur richiamando il celeberrimo passo dell’Apocalisse, lungi dall’essere un commento al libro della rivelazione, sono l’elencazione dei sette misteri della vita di Cristo, dall’incarnazione del Verbo fino alla gloria e alla felicità eterna che attendono i giusti alla fine dei tempi. E che il fine dell’opera sia da individuarsi nella compagine monastica è testimoniato tra l’altro dalla stretta connessione tra visione teologica e dimensione liturgica del mysterium. Se al centro della vita benedettina vi è l’opus Dei, la preghiera liturgica, cui nulla va anteposto, per Benedetto la liturgia è la traduzione materiale del mistero professato. Un esempio di ciò può essere tratto dai capitoli 98-99, sede di trattazione delle tre nascite di Cristo. La prima avvenne ante tempora, “ove nacque dal Padre senza madre”, la seconda in fine temporum, “quando nacque in modo inesprimibile dalla Vergine, ovvero da una madre senza padre”, e la terza si manifesta “nell’animo quando il Signore sorge nei nostri cuori come vera stella del mattino e con la luce della sua venuta ci illumina e ci libera dalle tenebre del peccato”. Queste tre nascite sono ricondotte da Benedetto alle tre messe del giorno di Natale. “La prima messa che si celebra a metà della notte significa la nascita dall’eternità di Cristo. La seconda che si celebra di primo mattino significa la sua nascita nel tempo. La terza, che si celebra in piena luce, cioè all’ora terza, indica la nascita spirituale, in cui per noi appieno rifulse il giorno santificato”. E, a rimarcare il contesto liturgico sede di attualizzazione del mistero, la ripresa quasi letterale, a commento, di due passi di praefationes, che introducono all’atto della consacrazione. Vi si trovano ripresi il prefazio di Natale “una nuova luce di divino splendore rifulse su di noi che sedevamo nelle tenebre e nell’ombra della morte e, mentre abbiamo conosciuto Dio in forma visibile, per mezzo di Lui siamo stati tratti alla conoscenza di Dio nella sua forma invisibile”, e quello, non meno significativo, delle messe votive alla Vergine “venne ad abitare tra noi il Verbo che sappiamo nato dalla Vergine nelle cui viscere, fattosi uomo, si chiuse”. Prefazi solenni che ancora oggi si proclamano nel Messale romano al di là delle traduzioni più o meno felici delle varie edizioni dal lussureggiante latino, caratterizzato da contrappunti a da antitesi su cui è modulata la stessa prosa di Benedetto da Bari e con quella tecnica medievale della “centonizzazione” che modula il testo in una tessitura di plurimi rimandi.

La riscoperta del De septem sigillis può rappresentare un importante tassello nella ricostruzione della teologia monastica medioevale specie di area meridionale. Gli otto secoli di oblio, se non ne hanno fatto un best seller, ne hanno pur sempre garantito la conservazione in una biblioteca monastica, come quella di Cava, che aveva come scopo primario di essere parte di una “scuola al servizio del Signore”. Benedetto da Bari di sicuro è stato uno dei maestri di quella scuola il cui fine, ricordato da quindici secoli di Regola, è che il monaco “perseverando nella dottrina in monastero fino alla morte, nella partecipazione alla passione di Cristo, meriti di condividerne anche il regno”. Di qui il percorso indicato dai “Sette Sigilli”.

 

Nicola Russomando

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