ARCHIVIOMamma Schiavona: il ritorno, la storia e il contrappunto ai «professionisti del Vaticano II»

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“Mamma Schiavona” ritorna nel suo sito originario, ovvero l’icona della Madonna di Montevergine è stata ricollocata nell’omonima cappella dell’antica basilica dell’abbazia sul Partenio, da cui era stata spostata per essere collocata sull’altare maggiore della nuova basilica, consacrata negli anni Sessanta.

 

La decisione è stata presa dalla comunità monastica dei benedettini sublacensi, guidata dall’abate D. Beda Paluzzi, e giustificata con la necessità di riportare l’icona della Madonna ad un contatto più diretto con i fedeli, così come era concepito nell’assetto dell’antica basilica. Il tutto nel contesto delle celebrazioni in onore di S. Guglielmo da Vercelli, fondatore del cenobio e morto nell’abbazia del Goleto a S. Angelo dei Lombardi nel 1142.

L’abbazia di Montevergine, fondata nel secolo XII, è ancora oggi territoriale, come quella di Cava, soggetta alla sola giurisdizione dell’abate, pur limitata di recente al santuario sul Partenio e al monastero di Loreto a Mercogliano, a testimonianza della diffusione raggiunta dalla congregazione verginiana nel Mezzogiorno. Tuttavia Montevergine è da almeno un cinquantennio all’attenzione degli studiosi per un’altra questione, che la ricollocazione dell’icona è destinata a rinfocolare.

Il tutto nasce dalla geniale intuizione di Margherita Guarducci, epigrafista e archeologa tra le più grandi del ‘900, scomparsa qualche anno fa, studiosa che, a titolo di esempio, ha autenticato i resti di S. Pietro nel sepolcreto romano sottostante la basilica – cuore della cristianità, o ha datato con sicurezza la stessa cattedra del Principe degli Apostoli, custodita nell’omonimo altare della stessa basilica, all’età dell’imperatore Massimiano. Ebbene la Guarducci era giunta alla convinzione che l’icona della Madonna di Montevergine, la cui testa costituisce un disco ligneo autonomo dal resto della pala, fosse in realtà l’originale della più antica immagine di Maria, l’Odigitria di Costantinopoli, l’archetipo di tutte le immagini successive della Vergine. “Odigitria”, termine che sta a indicare una tipologia di rappresentazione in cui Maria indica con la mano nel figlio la strada da seguire, tipo di icona uscita dal Concilio di Efeso, che proclamò Maria Madre di Dio l’11 ottobre del 431. Una data questa così carica di significato che Giovanni XXIII la volle come inizio del Concilio Vaticano II a segno della perpetuità del dogma nella Chiesa cattolica e con buona pace di quelli che nell’assise giovannea vedono uno spartiacque nella storia ecclesiastica. Di fatto, l’intuizione della Guarducci partiva dalla scoperta, a seguito di restauro da successive ridipinture, nella chiesa romana di S. Maria la Nova ai Fori imperiali, di un’icona della Madonna dipinta ad encausto su lino e per questo databile con certezza al V secolo. Dalle fonti emergeva che il dipinto poteva ben identificarsi con quello portato in Occidente dall’imperatore Teodosio II nel 438 come immagine speculare, e per questo invertita, dell’originale venerato a Bisanzio e ritenuto irrimediabilmente perduto nelle vicende dell’impero bizantino. La Guarducci, invece, giunge alla conclusione che l’originale dell’Odigitria, considerato per sempre perduto, sia rimasto oggetto di venerazione dei fedeli a Bisanzio come in Occidente e sia da identificarsi con la testa della Madonna di Montevergine.

Anche qui l’intuizione è supportata dalle fonti che vedono Baldovino II, ultimo re latino di Costantinopoli spodestato dai Bizantini nel 1261, donare ai cugini angioini di Napoli la sacra immagine. Il resto della pala potrebbe ben essere stata commissionata a Montano di Arezzo, pittore operante alla corte angioina, a cui viene attribuito l’intero dipinto. Alla Guarducci non fu mai consentito dai monaci di effettuare una ricognizione diretta sull’opera, quegli stessi monaci che anche in occasione della ricollocazione hanno confermato come definitiva la paternità a Montano. Eppure, recenti prove di confronto digitale dei volti di S. Maria la Nova e di Montevergine consentono di andare oltre l’intuizione pur geniale della studiosa nella perfetta corrispondenza speculare delle due immagini di Maria. Una cosa resta incontestabile, la tipologia bizantina del volto, il cui occhio oblungo e insondabilmente nero fissava il fedele da ogni angolo della nuova basilica, in particolare dagli ambulacri che circondano l’altare maggiore, nella suggestione della penombra di una sera di autunno inoltrato e di una chiesa deserta.

La questione storica, tutt’altro che definita, non intacca in nulla la devozione popolare che da sempre si rivolge alla Madonna di Montevergine con il titolo familiare di “Mamma Schiavona”. Devozione che può solo rafforzarsi di soprannaturale se si considera che questa immagine è sopravvissuta a tutte le iconoclastie della storia, da Efeso ad oggi. E così giustamente si può comprendere perché Giovanni XXIII, nell’aprire quel Concilio di cui a giorni si ricorda il cinquantenario, esordiva con le parole “Gaudet Mater Ecclesia”, “gioisce la Madre Chiesa nel giorno in cui si celebra la divina maternità di Maria”. Divina maternità di Maria il cui più antico documento pittorico è venerato senza soluzioni di continuità tra le epoche proprio a Montevergine.

Nicola Russomando


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Redazione Eolopress

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