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giustiziacampania

 

Così a Napoli e dintorni il tiro al politico è diventato l’hobby preferito di toghe affamate di notorietà ma dotate di mira scarsa. Molto scarsa. Breve rassegna di colpi fuori bersaglio.

La palude è vasta, piuttosto profonda, popolata da circa sei milioni di esseri umani. Tutti, o quasi, convinti che tra sabbie mobili, zanzare, malaria e dengue saranno salvati dal loro buon cuore e da certa tradizionale generosità. Tragicamente, non è così: almeno non più, certamente non ancora. In Campania il cinismo ha superato il disincanto, l’abitudine alla crudeltà, unita a una sguaiataggine senza pari che legittima anche il più becero leghismo nordico, ha cancellato tutta la mitologia sulla popolazione affabile e festante.
Facile però dare addosso alla politica, è come prendere a calci un cadavere. Qui, nella terra prediletta da consoli e imperatori romani, peggio del centrodestra c’è soltanto il centrosinistra. E non certo per le crociate giudiziarie, anzi. Sparare in fronte ai grandi e piccoli Bassolino, De Mita, Cosentino, Bocchino, Landolfi & company delle cinque province è il più rinomato degli intrattenimenti. Hanno tutti promesso un presente radioso e un futuro illuminato: chiedersi ancora oggi se ci sono riusciti indica che non si ha molto altro da fare. Tutti stanno dove stanno perché qualcuno ce li ha mandati, attraverso un meccanismo universalmente riconosciuto e ancora accettato, il voto. Non hanno vinto concorsi pubblici, non sono inamovibili, non si proteggono l’un l’altro per legge. Insomma, non sono magistrati. Già, perché a furia di farsi ossessionare ora da Bassolino, ora da Cosentino, ora da chissà chi altro, si tralascia il dato che le toghe ci sono anche qui, i tribunali esistono pure nell’ex Campania felix, l’Anm lavora anche in questa terra alla creazione in laboratorio del magistrato perfetto. Il magistrato collettivo pure qui si è sommato all’intellettuale collettivo. Il punto è che nella terra di Partenope e della Sibilla, della Magna Graecia e di Leucosia, tutto si raddoppia, quando non si quadruplica, col risultato di trasformare la rassegnazione, appunto, in cinismo.

La palude, si diceva. Gli schizzi d’acqua salmastra non risparmiano nessuno, come a dire che in Campania “il migliore ha la rogna”: vero, purtroppo, verissimo. Accanto al rilancio dell’attività di contrasto alla camorra, grazie all’abnegazione e alla solerzia delle varie distrettuali antimafia e delle forze dell’ordine, viaggia in parallelo un esercito di procuratori che, da un quindicennio a questa parte, ha scritto pagine nere sulla strada dell’emancipazione dell’individuo dal potere pubblico. Senza risponderne davanti a nessuno, forse neanche davanti a Dio. E, ovviamente, coprendosi reciprocamente quando qualcosa andava storta.


Il procuratore a spasso con gli indagati

Come nel caso di un ex procuratore di Salerno, la seconda città della regione. Frequentava politici sottoposti a indagine dal palazzo nel quale aveva ruoli di vertice, con loro divideva cene e divertimenti oltre che antiche amicizie. Impossibile non notarlo: al punto che qualcuno, una sera, addirittura lo riprende con una videocamera mentre gioca in strada con un imputato allo “scavalco” (io salto oltre te, mi abbasso e tu fai lo stesso con me e via di seguito) al termine di un’allegra libagione in un vicino ristorante. Il video viene consegnato alla magistratura e il denunciante convocato per essere ascoltato.

Sarà Gabriella Nuzzi (uno dei pm protagonisti del futuro scontro con i colleghi di Catanzaro) a visionare il filmato nella sede del comando provinciale dei carabinieri di Mercatello, a Salerno: il pm sobbalza sulla sedia nel vedere quelle scene, chiama accanto a sé alti ufficiali dell’Arma per condividere la testimonianza e trasmette subito dopo gli atti alla procura di Napoli. Passa qualche giorno e chi aveva denunciato la faccenda viene convocato al centro direzionale di Napoli dal procuratore aggiunto Filippo Beatrice. L’incontro dura alcune ore, vengono forniti tutti i particolari del caso ma, quando si tratta di mettere mano al videoregistratore per visionare il contenuto della cassetta, ci si accorge che non c’era più. Era scomparsa dal plico, liquefatta, svanita nel nulla durante il tragitto da Salerno a Napoli. Ci si accorda allora per un secondo incontro per la formalizzazione dei passaggi successivi e per la consegna di un duplicato dello scottante reperto. Da allora sono trascorsi due anni, il denunciante non sarà mai più convocato da nessuno. Tempi ha fatto qualche verifica: tutti i processi contro quel gruppo di persone amiche del procuratore si sono conclusi con assoluzioni e prescrizioni.

Il sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino non è il primo politico ad essere stato accusato di collusioni con il clan di Casal di Principe. Oltre dieci anni fa l’avvocato penalista Alfonso Martucci, figlio della grande tradizione forense partenopea, osò farsi eleggere al Parlamento nelle file dell’allora Pli. Fu travolto dal fango, dai venticelli pirandelliani che lo volevano compartecipe esterno del gruppo casalese che, chissà perché, non voterebbe mai per i tanti parlamentari che la sinistra esprime da anni. Eppure il bacino elettorale è più o meno sempre quello.


Il modello dipietrista

Di_PietroL’epilogo della storia dell’avvocato Martucci si può immaginare: non c’era nulla. Forse pagò il fatto di essere cattolico e di eseguire il dettato costituzionale che garantisce il diritto alla difesa anche al peggior criminale, essendo lui avvocato di tanti boss e meno boss. La procura era quella di Santa Maria Capua Vetere, la stessa che, a distanza di qualche tempo, riuscì a far cadere un governo della Repubblica grazie alla firma sotto un’ordinanza di custodia cautelare per la moglie del ministro della Giustizia, una firma apposta da chi, posata la penna sulla scrivania, si autodichiarava incompetente a farlo.

Ma ci sono stravaganze ancora più clamorose nel pallottoliere di certa schizofrenia giudiziaria campana. A Palinuro, splendida località marina del Cilento, c’è stato a lungo un sindaco Dc, Romano Speranza. Ebbene, il suo è un vero e proprio record italiano, forse mondiale: ha subìto 500 (dicasi cinquecento) processi penali dalla procura di Vallo della Lucania per abuso d’ufficio. Speranza era accusato dai procuratori Nicola Boccassini (zio di Ilda la rossa) e Anacleto Dolce di aver rilasciato concessioni edilizie in assenza dello strumento urbanistico. Anziché unificare il tutto in un unico procedimento i magistrati incardinarono tutti e cinquecento i processi, uno per ogni concessione rilasciata dal Comune. Il perché lo diremo tra poco.

 

Speranza fu costretto a difendersi per cinquecento volte dalla stessa accusa e, se non avesse trovato un difensore come il penalista Felice Lentini, uno dei sempre più rari avvocati che non se la fanno addosso al cospetto di un magistrato, a quest’ora sarebbe ancora in giro per aule di tribunale. Dieci anni, cinquecento processi, cinquecento assoluzioni. Un’accusa in particolare ha del metafisico: mentre per 499 volte si contestava a Speranza di aver rilasciato licenze edilizie illegittime, nella cinquecentesima gli si addebitava il contrario. Cioè il sindaco di Palinuro aveva secondo i pm abusato del suo ufficio per “non” aver concesso i permessi a un certo signore. Si deve aggiungere altro? Ma perché fare 500 processi, con relativi aggravi di spese per lo Stato oltre che con lesione delle prerogative costituzionali dell’imputato, e non uno solo dal momento che la fattispecie era unica? Semplice: perché bisognava affidare altrettante perizie tecniche d’ufficio e incarichi difensivi. Si scoprirà poi che i due pm gestivano la procura sul “modello Milano”. È storia nota che, ai tempi di Tangentopoli, a Milano non finivi dietro le “sbarre preventive” di Antonio Di Pietro (nella foto) e del pool se a difenderti erano Federico Stella o Antonio Lucibello: il prototipo venne assunto, su scala ridotta, a Vallo della Lucania in tema di periti di tribunale e avvocati. L’unica differenza sta nel fatto che Boccassini e Dolce finirono dopo qualche anno in manette. Oggi uno si gode la pensione da magistrato e l’altro fa l’avvocato. Speranza è stato rieletto sindaco nel 2007 nelle liste di centrodestra dopo aver fatto il tesoriere provinciale dell’Udc prima che il partito finisse nelle mani del “mai stato anticomunista” Ciriaco De Mita (copyright del Corriere della Sera).

Querele e schizzi di fango

A proposito di numeri da capogiro, c’è un’altra storia eloquente, conclusasi proprio qualche giorno fa. L’ex rettore dell’Università di Salerno, il filosofo Roberto Racinaro, 14 anni fa venne prelevato e sbattuto in cella perché due pm erano convinti che “non poteva non sapere” che nell’ateneo si pagavano mazzette per la costruzione degli alloggi studenteschi. Il “papello” urlava 27 capi di imputazione. Racinaro, per la cui causa si mossero intellettuali di ogni tipo e colore in tutta Europa, fu messo per dodici giorni nella cella dov’era stato Raffaele Cutolo, nel carcere di massima sicurezza di Bellizzi Irpino. Altri quindici giorni li passò ai domiciliari. Non poteva non sapere, e infatti non seppe e non ha saputo, se è vero che su 27 accuse ha incassato 26 assoluzioni, l’ultima giunta meno di due settimane fa. Un solo reato è ancora appeso alla Cassazione, anche perché l’ex rettore aveva rinunciato alla prescrizione che pur lavorava in suo favore. Voleva giustizia e, diciamo, l’ha ottenuta: ma non prima di 14 anni.

Schizzi di melma di palude che toccano tutti in Campania, ovunque ci si giri: sia che ti si addebitino familiarità o attività camorristiche, sia che entri in rotta di collisione con il mondo delle toghe. Inutile sottolineare le tante, eroiche eccezioni.

VescovoFavaleLa Campania è anche il posto dove un ex principe della Chiesa si ritrova con la casa dove godersi la pensione costruita da un’impresa edile colpita da interdittiva antimafia in quanto riconosciuta organica ai clan casalesi. La costruzione, però, continua, con vasche Jacuzzi, stucchi di qualità e ceramiche di pregio, l’impresa di costruzioni prosegue tranquillamente nei lavori. Una ragione ci sarà.

La Campania è, ancora, il posto dove un vescovo, Rocco Favale (nella foto), si permise di esprimere un’opinione su un pm che indagava su di lui per il restauro di una chiesetta. Non l’avesse mai fatto, guai a dire quel che monsignor Favale ebbe a dire e scrivere ai suoi fedeli: “Questa inchiesta è figlia di un approccio ideologico” o qualcosa del genere.
Il magistrato Claudio Tringali, ex Magistratura democratica, querela perché sarebbe stato leso nella sua onorabilità personale e professionale. E quanto costano le due eccelse qualità? Circa 63 mila euro, cioè l’importo della sanzione pecuniaria unita alla condanna per diffamazione giunta il 5 giugno scorso nei confronti del vescovo. Chi ha giudicato se il magistrato Tringali fosse stato o meno leso nei suoi diritti? Un altro magistrato. C’è qualcosa che non torna. O no?

Peppe Rinaldi
TEMPI

Peppe Rinaldi

Giornalista

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